martedì 24 giugno 2014

(Quasi) a metà strada

Sono a Coban (da una settimana), la mia ultima tappa. Quindi direi che la mappa può essere aggiornata così.


Coban è molto più fresca degli altri posti. Siamo a 1320 metri di altitudine, per arrivare qua bisogna passare per una strada a tratti molto sterrata. Si attraversano enormi colline tagliate dalla strada, e si sente l’aria diventare più fresca di minuto in minuto. Si passano paesi pieni di parabole e pubblicità e campi di mais quasi verticali. Lungo la strada si incrociano persone che portano enormi carichi di legna sulla schiena, tenuta insieme da una banda di tessuto che si appoggia sulla fronte dove si scarica tutto il peso. Il bus avanza ondulando lentamente, ogni tanto riesce a prendere il respiro e poi alla salita dopo riprende lo sforzo. Quasi a destinazione il bus si ferma per essere lavato. Noi passeggeri siamo ricoperti da un sottile strato di polvere, ma è sempre meglio di quando sono in moto…

Coban mi piace, è grande abbastanza per avere supermercati e bar, ma non è una città come Guate. Il clima è piacevole e la mia doccia è calda, e c’è anche il McDonalds. Ci sono un sacco di internet cafè e una discoteca con il drive thru per prendere bibite da asporto. In linea con il resto del paese è pieno di farmacie (boh), e la Hollister va un casino, almeno tanto quante la maglie delle squadre di calcio. I denti d’oro sono un’altra moda guatemalteca, a livello nazionale, anche tra i poveri, nonostante il costo relativamente elevato. Una delle tradizioni che non capisco (e odio) sono le bombe celebrative: la domenica si susseguono irritanti esplosioni, senza nulla da vedere, solo esplosioni.



Sono passata davanti a questo posto e mi sono dovuta fermare a chiedere: i proprietari sono di Fortogna!!! Casa <3 p="">



Apriamo una parentesi e facciamo un breve riassunto dei mezzi di trasporto in Guatemala. Prima considerazione da fare, le strade asfaltate sono relativamente poche. Da Città del Guatemala (1) a Santa Elena (2/5) si arriva facilmente, la strada è asfaltata e a tratti anche a più corsie. Per arrivare da Santa Elena (2/5) a Raxruhà (6) la strada anche è asfaltata, ma a Sayaxché bisogna attraversa un fiume – su una chiatta se si è in macchina, su un barchino (lancha) se a piedi. Da Raxruhà (6) a Rio Dulce (8), passando per Chahal (7), hanno appena asfaltato, anche se dei tratti sono ancora sterrati – e devono ancora fare dei ponti veri e propri. Da Rio Dulce (8) a El Estor (9) asfaltato. Da El Estor (9) a Panzòs (10) sterrato. Da Panzòs (10) a Cobàn (11) è prima asfaltato, poi solo una corsia è asfaltata, poi sterratissimo, poi di nuovo asfalto.
Come mezzi, ci sono diverse soluzioni. Per le lunghe distanze lungo le arterie principali e asfaltate, ci sono le corriere di varie linee, da quella turista-lusso a quella popolare. In alternativa, e se tutte le possibili tratte, ci sono i maledetti microbus, 4 file di sedili che tengono dalle 10-12 persone (che presumo sia il numero per cui è pensato il furgoncino) alle 25 o anche 30, se si mettono sul tetto insieme ai bagagli. Di solito, ogni città ha più o meno una stazione o punto di partenza, ma comunque il microbus fa il giro del paese per raccogliere gente prima di partire. Ci sono l’autista e lo strillone: il primo guida, il secondo gestisce i clienti, ovvero apre e chiude la porta scorrevole (le volte che vieni chiusa)  per fare salire e scendere la gente, grida la destinazione del bus a chiunque ci sia lungo la strada, e raccoglie i soldi a bordo. La comodità di salire alla stazione è che almeno riesci a sederti, ma poi ti becchi un quarto d’ora di tour di paese. Nei punti di passaggio più popolari per la raccolta passeggeri i bus sono assaliti da venditori ambulanti che cercano di vendere ai passeggeri acqua, gomme, frutta, empanadas e qualsiasi altra cosa possibile. Non esistono fermate vere e proprio (giusto qua in zona Cobàn, ho notato) e quindi anche se è a piena velocità inchioda per fare salire o scendere la gente in posti assolutamente random. La cosa buona è puoi scendere dove vuoi, ad esempio davanti al tuo albergo, se è di strada; la brutta è che si ferma continuamente e non arrivi mai. In più i passeggeri ci mettono del loro: se ci si ferma per lasciare uno, quello dopo ti fa fermare 10 metri più tardi, e il terzo dopo altri 50. Una signora una volta ha fatto fermare il bus per fare un ordine a un furgone di consegne di cibo surgelato. Esiste anche una variante un po’ più spaziosa dei microbus, ma sono meno comuni. Il meccanismo è lo stesso. In ultimo, ci sono i chicken bus, i vecchi scuola bus americani riconvertiti. Questi ti fanno persino il biglietto e sono più comuni qua in Alta Verapaz che al nord.
Per spostarsi su distanze breve, ogni posto è invaso di tuc tuc, le nostre api, anche se qua a Cobàn mi sembra ci siano più veri e propri taxi (che ovviamente vanno a occhio, non c’è il tassametro). Altro mezzo sono i pickup: sul cassone è montata una specie di gabbia a cui la gente si appoggia o si aggrappa, a seconda dei casi. Questi di solito sono utilizzati per raggiungere le comunità dimenticate dal mondo in cima a impossibili strade sterrate (sterrate è riduttivo). Ogni volta mi chiedono come ce la possano fare, tra il peso che portano, lo stato del mezzo e le strade che scalano.



Sabato sono andata a Semuc Champey. Venerdì, o sabato o domenica vado ad Antigua. Fine del lavoro di campo, mi aspetta un mese e qualcosa di semplice ufficio e studio. Se non altro da Antigua dovrebbe essere abbastanza facile visitare la parte occidentale del paese e conoscere un po’ di gente.




Sono già (quasi) a metà.

Bonus:

domenica 8 giugno 2014

La strada giusta

Sono a El Estor, sempre sul lago di Izabal. Alloggio in un altro hotel ecologico, ovvero un hotel immerso nella foresta, con tanto di scimmie (urlatrici), uccelli vari, iguane e anche un alligatore. Molto pacifico, i proprietari sono simpatici e c’è un po’ di tranquillità rispetto agli alberghi precedenti, dove i rumori della città sono praticamente incessanti. Ho passato il weekend a studiare e rilassarmi… e poi è anche uscita la seconda serie di Orange is the new black (ma quanto irresponsabile può essere rilasciare un’intera stagione lo stesso giorno?!).

Venerdì sono andata a visitare alcuni clienti che vivono in cima a una montagna – letteralmente. La strada sale improvvisamente dal piano, e sale praticamente in verticale. La moto fa fatica (il pilota pure….) ma ce la si fa. Dopo il primo quarto d’ora scolliniamo e la vista è mozzafiato. Poi ci si riaddentra nella foresta e si ricomincia a salire. L’aria diventa più fresca di minuto in minuto, la foschia avvolge la cima della montagna. Il terreno è inizialmente lastra di cemento, poi sassi, poi terra – una terra più rossa e argillosa di quella degli altri posti che ho visto. Ogni tanto riappaiono tratti di cemento, chissà per quale logica. Arrivati quasi in cima, quando la strada inizia a tornare pianeggiante, scorgo un quetzal, il coloratissimo uccello nazionale, su un ramo. È il primo che vedo.



 Il villaggio è simile a quelli che ho già visto, ma qua per qualche ragione hanno sia acqua che elettricità. La terra è più compatta e ben battuta, e dà al villaggio un aspetto più ordinato. Le case sono come al solito quasi tutte di legno, ma evidentemente in queste zone la politica arriva ancora più prepotentemente: le pareti sono dipende o di rosso, per il partito Lider, o di verde, per il partito Une. Alcune anche di giallo, il partito Patriota. E c’è di più: ci sono due campi di calcio a poco distanza: uno ha le porte dipinte di rosso, l’altro di verde. Oltre alla compagnie telefoniche, anche i partiti dipingono le città, i paesi, i più poveri dei villaggi. Devo ancora capire i meccanismi: pagano i proprietari? Lo fanno e basta?

Mi fermo qua fino giovedì, poi vado in quel di Tactic, in Alta Verapaz, per le ultime due settimane di ricerca. Cerco di andare la mattina così per le 14 sono a vedere Brasile – Croazia.

Sabato scorso sono andata a Livingston, la città situata alla foce di Rio Dulce, sull’atlantico. “I caraibi che non ti aspetti”, dice lo slogan della città. Beh, di caraibico Livingston ha gli abitanti, i garìfuna, discendenti degli schiavi africani e arrivati sulle coste del Guatemala proprio dalle isole caraibiche. Sono neri e in giro si sente molto Bob Marley. Parlano una lingua che è un misto di inglese, spagnolo, creole, francese e chissà cos’altro. Alla fine si capisce poco anche quando parlano in inglese, o in spagnolo o in francese. Il mare, ahi loro, non ha molto di caraibico, probabilmente per correnti sfavorevoli. Il Belize a quanto pare è un posto da urlo, e la povera Livingston, qualche km più a sud, invece non ha molto da sfoggiare. Sono rimasta solo un paio d’ore, quindi non posso aggiungere molto altro. Magari la sera è un posto divertente. Per arrivarci, ho fatto due ore di barchino lungo il Rio Dulce. In molti vivono lungo le acque, alcuni in semplici capanne, altri – specie a inizio e fino del fiume – in vere e proprie ville con tanto di attracco per l’eventuale barca del caso. Ho letto da qualche parte che il lago di Izabal e Rio dulce sono attracchi sicuri nell’area caraibica anche durante la stagione della piogge, quindi deduco che molti (ricchi) le usino come punto di appoggio.

È già un mese che sono qua, e inizio a sentirlo. Con la ricerca va così e così, mi sembra di non riuscire davvero ad ottenere risposte alla mie domande, e devo capire se sbaglio a fare le domande o a capire le risposte. Immagino sia normale visto che è la mia prima volta, ma ho un po’ d’ansia di sprecare settimane sul campo e tornare a casa con nulla di buono su cui lavorare. Anche per questo mi sono presa il weekend per fare il punto della situazione.
Oltre alla ricerca, inizio ad essere stufa della valigia, degli alberghi, dello spostarmi ogni 3-4-5 giorni annullando la possibilità di conoscere qualcuno. Certo, i ragazzi con cui lavoro sono (quasi) sempre simpatici e ben disponibili, a volte curiosi (“Ah Belgio, Italia… Quindi tu vieni da, come si chiama là dove ci sono Spagna, Italia…?” “Europa?” “sì, Europa!!”), ma non si va molto oltre. C’è anche chi divente insistente, e allora là proprio NON si va oltre. Da un lato poi, dopo una giornata passata in mezzo alla gente (letteralmente) sono molto contenta di starmene in camera da sola. I pasti sono quasi sempre il momento peggiore, dover andare a mangiare da soli. Se non fosse perché ne ho bisogno, a volte non mangiarei. Qua in hotel, per esempio, va ancora bene perché alla fine è intimo e si fanno due chiacchere volendo (anche se i prezzi sono il doppio rispetto a fuori), ma dovessi uscire per cercare un posto dove mangiare da sola…. Non ne ho proprio voglia.

Non voglio davvero, come già sottolineato, fare un ritratto sbagliato del Guatemala. Ripeto, fino adesso mai mi sono sentita in pericolo o mai mi è mancato nulla di fondamentale. Alloggio in hotel con il mio bagno e tutto ciò di cui ho bisogno, posso comprare tutto il necessario in normalissimi negozi ed è pieno di farmacie. Non mi manca tutto ciò che è primario. Ed è anche un posto bellissimo, pieno di storia e natura. Di nuovo, in questi paesi il problema grande è la politica, locale e di sviluppo. È il classico caso di volere è potere. D’altronde, questo si potrebbe dire per qualsiasi cosa riguardi l’essere umano… Arriviamo su Marte però metà del pianeta muore di fame?
Venerdì mentre pranzavo (da sola) ho sfogliato il giornale. Le prime 5-6 pagine parlano solo di omicidi, per lo più regolamenti conti nella periferia della capitale. Alcuni risultati di risse tra ubriachi. Il giornale riporta i commenti di gente comune, come quelli qua sotto. Se ne deduce che la colpa della violenza è del governo che non fa abbastanza. Secondo la ragazza, è il compimento di ciò che è scritto nella Bibbia. Però c’era anche un trafiletto sul calcio femminile!! In ogni caso, questo la dice lunga sulla politica in Guatemala: il partito Lider, per esempio, punta tutto sulla pena di morte e i programmi sociali.



Stando qua mi sembra di essere tornata indietro 8-10 anni nella mia vita: giovane donna insicura e nell’armadio. Attiro inevitabilmente sguardi, divertiti o indiscreti. La grande maggioranza dei guatemaltechi è gentile e molto aperta, ma non mancano le donne che ti squadrano in maniera maliziosa o i ragazzi che ridono e ti gridano “hello, good morning” in un inglese stentato (qui sei automaticamente americano – un gringo, se non sei un locale). E ovviamente, onde evitare qualsiasi questione, quando arriva la classica domanda, racconto che a casa ho il “ragazzo”. Bum – salto indietro.
Mi manca la mia libertà europea di poter essere chi sono, senza paura. Qui non vedo libertà di scelta, sembra essere la vita a decidere per te, per limiti economici o culturali che siano. A volte in Europa non ci rendiamo conto di dove siamo arrivati, di quante conquiste, quanti traguardi abbiamo raggiunto. Non siamo certo i migliori, non siamo per forza un modello, non dobbiamo mica esportare democrazia. Ma io sinceramente sono contenta di quello che abbiamo, e spero di continuare per quella strada, e di non tornare indietro.
Qua guardo le mie coetanee e mi chiedo se siano felici, con i loro 5 figli e la loro casa di terra e legno. Che cos’è che importa, alla fine? Come si definisce chi sta meglio e chi sta peggio? In base a chi vive più a lungo? A chi mangia meglio? A chi sorride di più? Magari fosse nata qua avrei anch’io il mio marito agricoltore e una schiera di bambini da accudire, e non mi farei tante domande. Sarebbe per forza un male? Dobbiamo davvero salvare qualcuno? Noi, gli sviluppati, che cosa (e perché) dobbiamo promuovere?
Non lo so, faccio fatica a darmi delle risposte. Faccio fatica a capire quale sia la strada giusta e soprattutto perché una strada può essere giusta e l’altra no. Per chiarezza, non voglio dire che noi siamo più avanti lunga lo strada, e che i paesi in via di sviluppo (ma quando diventano “sviluppati”?) siano dietro di noi, perché potrebbero (dovrebbero?) essere su un’altra strada – la loro strada.

Forse è il caso che torni alla mia ricerca, prima di confondermi ancora di più le idee. Giuro che Orange is the new black lo guardo in pausa pranzo.



Questa è la mia foto preferita del viaggio, fino adesso.