martedì 24 giugno 2014

(Quasi) a metà strada

Sono a Coban (da una settimana), la mia ultima tappa. Quindi direi che la mappa può essere aggiornata così.


Coban è molto più fresca degli altri posti. Siamo a 1320 metri di altitudine, per arrivare qua bisogna passare per una strada a tratti molto sterrata. Si attraversano enormi colline tagliate dalla strada, e si sente l’aria diventare più fresca di minuto in minuto. Si passano paesi pieni di parabole e pubblicità e campi di mais quasi verticali. Lungo la strada si incrociano persone che portano enormi carichi di legna sulla schiena, tenuta insieme da una banda di tessuto che si appoggia sulla fronte dove si scarica tutto il peso. Il bus avanza ondulando lentamente, ogni tanto riesce a prendere il respiro e poi alla salita dopo riprende lo sforzo. Quasi a destinazione il bus si ferma per essere lavato. Noi passeggeri siamo ricoperti da un sottile strato di polvere, ma è sempre meglio di quando sono in moto…

Coban mi piace, è grande abbastanza per avere supermercati e bar, ma non è una città come Guate. Il clima è piacevole e la mia doccia è calda, e c’è anche il McDonalds. Ci sono un sacco di internet cafè e una discoteca con il drive thru per prendere bibite da asporto. In linea con il resto del paese è pieno di farmacie (boh), e la Hollister va un casino, almeno tanto quante la maglie delle squadre di calcio. I denti d’oro sono un’altra moda guatemalteca, a livello nazionale, anche tra i poveri, nonostante il costo relativamente elevato. Una delle tradizioni che non capisco (e odio) sono le bombe celebrative: la domenica si susseguono irritanti esplosioni, senza nulla da vedere, solo esplosioni.



Sono passata davanti a questo posto e mi sono dovuta fermare a chiedere: i proprietari sono di Fortogna!!! Casa <3 p="">



Apriamo una parentesi e facciamo un breve riassunto dei mezzi di trasporto in Guatemala. Prima considerazione da fare, le strade asfaltate sono relativamente poche. Da Città del Guatemala (1) a Santa Elena (2/5) si arriva facilmente, la strada è asfaltata e a tratti anche a più corsie. Per arrivare da Santa Elena (2/5) a Raxruhà (6) la strada anche è asfaltata, ma a Sayaxché bisogna attraversa un fiume – su una chiatta se si è in macchina, su un barchino (lancha) se a piedi. Da Raxruhà (6) a Rio Dulce (8), passando per Chahal (7), hanno appena asfaltato, anche se dei tratti sono ancora sterrati – e devono ancora fare dei ponti veri e propri. Da Rio Dulce (8) a El Estor (9) asfaltato. Da El Estor (9) a Panzòs (10) sterrato. Da Panzòs (10) a Cobàn (11) è prima asfaltato, poi solo una corsia è asfaltata, poi sterratissimo, poi di nuovo asfalto.
Come mezzi, ci sono diverse soluzioni. Per le lunghe distanze lungo le arterie principali e asfaltate, ci sono le corriere di varie linee, da quella turista-lusso a quella popolare. In alternativa, e se tutte le possibili tratte, ci sono i maledetti microbus, 4 file di sedili che tengono dalle 10-12 persone (che presumo sia il numero per cui è pensato il furgoncino) alle 25 o anche 30, se si mettono sul tetto insieme ai bagagli. Di solito, ogni città ha più o meno una stazione o punto di partenza, ma comunque il microbus fa il giro del paese per raccogliere gente prima di partire. Ci sono l’autista e lo strillone: il primo guida, il secondo gestisce i clienti, ovvero apre e chiude la porta scorrevole (le volte che vieni chiusa)  per fare salire e scendere la gente, grida la destinazione del bus a chiunque ci sia lungo la strada, e raccoglie i soldi a bordo. La comodità di salire alla stazione è che almeno riesci a sederti, ma poi ti becchi un quarto d’ora di tour di paese. Nei punti di passaggio più popolari per la raccolta passeggeri i bus sono assaliti da venditori ambulanti che cercano di vendere ai passeggeri acqua, gomme, frutta, empanadas e qualsiasi altra cosa possibile. Non esistono fermate vere e proprio (giusto qua in zona Cobàn, ho notato) e quindi anche se è a piena velocità inchioda per fare salire o scendere la gente in posti assolutamente random. La cosa buona è puoi scendere dove vuoi, ad esempio davanti al tuo albergo, se è di strada; la brutta è che si ferma continuamente e non arrivi mai. In più i passeggeri ci mettono del loro: se ci si ferma per lasciare uno, quello dopo ti fa fermare 10 metri più tardi, e il terzo dopo altri 50. Una signora una volta ha fatto fermare il bus per fare un ordine a un furgone di consegne di cibo surgelato. Esiste anche una variante un po’ più spaziosa dei microbus, ma sono meno comuni. Il meccanismo è lo stesso. In ultimo, ci sono i chicken bus, i vecchi scuola bus americani riconvertiti. Questi ti fanno persino il biglietto e sono più comuni qua in Alta Verapaz che al nord.
Per spostarsi su distanze breve, ogni posto è invaso di tuc tuc, le nostre api, anche se qua a Cobàn mi sembra ci siano più veri e propri taxi (che ovviamente vanno a occhio, non c’è il tassametro). Altro mezzo sono i pickup: sul cassone è montata una specie di gabbia a cui la gente si appoggia o si aggrappa, a seconda dei casi. Questi di solito sono utilizzati per raggiungere le comunità dimenticate dal mondo in cima a impossibili strade sterrate (sterrate è riduttivo). Ogni volta mi chiedono come ce la possano fare, tra il peso che portano, lo stato del mezzo e le strade che scalano.



Sabato sono andata a Semuc Champey. Venerdì, o sabato o domenica vado ad Antigua. Fine del lavoro di campo, mi aspetta un mese e qualcosa di semplice ufficio e studio. Se non altro da Antigua dovrebbe essere abbastanza facile visitare la parte occidentale del paese e conoscere un po’ di gente.




Sono già (quasi) a metà.

Bonus:

domenica 8 giugno 2014

La strada giusta

Sono a El Estor, sempre sul lago di Izabal. Alloggio in un altro hotel ecologico, ovvero un hotel immerso nella foresta, con tanto di scimmie (urlatrici), uccelli vari, iguane e anche un alligatore. Molto pacifico, i proprietari sono simpatici e c’è un po’ di tranquillità rispetto agli alberghi precedenti, dove i rumori della città sono praticamente incessanti. Ho passato il weekend a studiare e rilassarmi… e poi è anche uscita la seconda serie di Orange is the new black (ma quanto irresponsabile può essere rilasciare un’intera stagione lo stesso giorno?!).

Venerdì sono andata a visitare alcuni clienti che vivono in cima a una montagna – letteralmente. La strada sale improvvisamente dal piano, e sale praticamente in verticale. La moto fa fatica (il pilota pure….) ma ce la si fa. Dopo il primo quarto d’ora scolliniamo e la vista è mozzafiato. Poi ci si riaddentra nella foresta e si ricomincia a salire. L’aria diventa più fresca di minuto in minuto, la foschia avvolge la cima della montagna. Il terreno è inizialmente lastra di cemento, poi sassi, poi terra – una terra più rossa e argillosa di quella degli altri posti che ho visto. Ogni tanto riappaiono tratti di cemento, chissà per quale logica. Arrivati quasi in cima, quando la strada inizia a tornare pianeggiante, scorgo un quetzal, il coloratissimo uccello nazionale, su un ramo. È il primo che vedo.



 Il villaggio è simile a quelli che ho già visto, ma qua per qualche ragione hanno sia acqua che elettricità. La terra è più compatta e ben battuta, e dà al villaggio un aspetto più ordinato. Le case sono come al solito quasi tutte di legno, ma evidentemente in queste zone la politica arriva ancora più prepotentemente: le pareti sono dipende o di rosso, per il partito Lider, o di verde, per il partito Une. Alcune anche di giallo, il partito Patriota. E c’è di più: ci sono due campi di calcio a poco distanza: uno ha le porte dipinte di rosso, l’altro di verde. Oltre alla compagnie telefoniche, anche i partiti dipingono le città, i paesi, i più poveri dei villaggi. Devo ancora capire i meccanismi: pagano i proprietari? Lo fanno e basta?

Mi fermo qua fino giovedì, poi vado in quel di Tactic, in Alta Verapaz, per le ultime due settimane di ricerca. Cerco di andare la mattina così per le 14 sono a vedere Brasile – Croazia.

Sabato scorso sono andata a Livingston, la città situata alla foce di Rio Dulce, sull’atlantico. “I caraibi che non ti aspetti”, dice lo slogan della città. Beh, di caraibico Livingston ha gli abitanti, i garìfuna, discendenti degli schiavi africani e arrivati sulle coste del Guatemala proprio dalle isole caraibiche. Sono neri e in giro si sente molto Bob Marley. Parlano una lingua che è un misto di inglese, spagnolo, creole, francese e chissà cos’altro. Alla fine si capisce poco anche quando parlano in inglese, o in spagnolo o in francese. Il mare, ahi loro, non ha molto di caraibico, probabilmente per correnti sfavorevoli. Il Belize a quanto pare è un posto da urlo, e la povera Livingston, qualche km più a sud, invece non ha molto da sfoggiare. Sono rimasta solo un paio d’ore, quindi non posso aggiungere molto altro. Magari la sera è un posto divertente. Per arrivarci, ho fatto due ore di barchino lungo il Rio Dulce. In molti vivono lungo le acque, alcuni in semplici capanne, altri – specie a inizio e fino del fiume – in vere e proprie ville con tanto di attracco per l’eventuale barca del caso. Ho letto da qualche parte che il lago di Izabal e Rio dulce sono attracchi sicuri nell’area caraibica anche durante la stagione della piogge, quindi deduco che molti (ricchi) le usino come punto di appoggio.

È già un mese che sono qua, e inizio a sentirlo. Con la ricerca va così e così, mi sembra di non riuscire davvero ad ottenere risposte alla mie domande, e devo capire se sbaglio a fare le domande o a capire le risposte. Immagino sia normale visto che è la mia prima volta, ma ho un po’ d’ansia di sprecare settimane sul campo e tornare a casa con nulla di buono su cui lavorare. Anche per questo mi sono presa il weekend per fare il punto della situazione.
Oltre alla ricerca, inizio ad essere stufa della valigia, degli alberghi, dello spostarmi ogni 3-4-5 giorni annullando la possibilità di conoscere qualcuno. Certo, i ragazzi con cui lavoro sono (quasi) sempre simpatici e ben disponibili, a volte curiosi (“Ah Belgio, Italia… Quindi tu vieni da, come si chiama là dove ci sono Spagna, Italia…?” “Europa?” “sì, Europa!!”), ma non si va molto oltre. C’è anche chi divente insistente, e allora là proprio NON si va oltre. Da un lato poi, dopo una giornata passata in mezzo alla gente (letteralmente) sono molto contenta di starmene in camera da sola. I pasti sono quasi sempre il momento peggiore, dover andare a mangiare da soli. Se non fosse perché ne ho bisogno, a volte non mangiarei. Qua in hotel, per esempio, va ancora bene perché alla fine è intimo e si fanno due chiacchere volendo (anche se i prezzi sono il doppio rispetto a fuori), ma dovessi uscire per cercare un posto dove mangiare da sola…. Non ne ho proprio voglia.

Non voglio davvero, come già sottolineato, fare un ritratto sbagliato del Guatemala. Ripeto, fino adesso mai mi sono sentita in pericolo o mai mi è mancato nulla di fondamentale. Alloggio in hotel con il mio bagno e tutto ciò di cui ho bisogno, posso comprare tutto il necessario in normalissimi negozi ed è pieno di farmacie. Non mi manca tutto ciò che è primario. Ed è anche un posto bellissimo, pieno di storia e natura. Di nuovo, in questi paesi il problema grande è la politica, locale e di sviluppo. È il classico caso di volere è potere. D’altronde, questo si potrebbe dire per qualsiasi cosa riguardi l’essere umano… Arriviamo su Marte però metà del pianeta muore di fame?
Venerdì mentre pranzavo (da sola) ho sfogliato il giornale. Le prime 5-6 pagine parlano solo di omicidi, per lo più regolamenti conti nella periferia della capitale. Alcuni risultati di risse tra ubriachi. Il giornale riporta i commenti di gente comune, come quelli qua sotto. Se ne deduce che la colpa della violenza è del governo che non fa abbastanza. Secondo la ragazza, è il compimento di ciò che è scritto nella Bibbia. Però c’era anche un trafiletto sul calcio femminile!! In ogni caso, questo la dice lunga sulla politica in Guatemala: il partito Lider, per esempio, punta tutto sulla pena di morte e i programmi sociali.



Stando qua mi sembra di essere tornata indietro 8-10 anni nella mia vita: giovane donna insicura e nell’armadio. Attiro inevitabilmente sguardi, divertiti o indiscreti. La grande maggioranza dei guatemaltechi è gentile e molto aperta, ma non mancano le donne che ti squadrano in maniera maliziosa o i ragazzi che ridono e ti gridano “hello, good morning” in un inglese stentato (qui sei automaticamente americano – un gringo, se non sei un locale). E ovviamente, onde evitare qualsiasi questione, quando arriva la classica domanda, racconto che a casa ho il “ragazzo”. Bum – salto indietro.
Mi manca la mia libertà europea di poter essere chi sono, senza paura. Qui non vedo libertà di scelta, sembra essere la vita a decidere per te, per limiti economici o culturali che siano. A volte in Europa non ci rendiamo conto di dove siamo arrivati, di quante conquiste, quanti traguardi abbiamo raggiunto. Non siamo certo i migliori, non siamo per forza un modello, non dobbiamo mica esportare democrazia. Ma io sinceramente sono contenta di quello che abbiamo, e spero di continuare per quella strada, e di non tornare indietro.
Qua guardo le mie coetanee e mi chiedo se siano felici, con i loro 5 figli e la loro casa di terra e legno. Che cos’è che importa, alla fine? Come si definisce chi sta meglio e chi sta peggio? In base a chi vive più a lungo? A chi mangia meglio? A chi sorride di più? Magari fosse nata qua avrei anch’io il mio marito agricoltore e una schiera di bambini da accudire, e non mi farei tante domande. Sarebbe per forza un male? Dobbiamo davvero salvare qualcuno? Noi, gli sviluppati, che cosa (e perché) dobbiamo promuovere?
Non lo so, faccio fatica a darmi delle risposte. Faccio fatica a capire quale sia la strada giusta e soprattutto perché una strada può essere giusta e l’altra no. Per chiarezza, non voglio dire che noi siamo più avanti lunga lo strada, e che i paesi in via di sviluppo (ma quando diventano “sviluppati”?) siano dietro di noi, perché potrebbero (dovrebbero?) essere su un’altra strada – la loro strada.

Forse è il caso che torni alla mia ricerca, prima di confondermi ancora di più le idee. Giuro che Orange is the new black lo guardo in pausa pranzo.



Questa è la mia foto preferita del viaggio, fino adesso.

venerdì 30 maggio 2014

Odore di bruciato

Il Guatemala è uno strano paese – ma immagino che tutti i paesi che non conosciamo ci sembrino strani.
In questi ultimi giorni quello che mi ha colpito di più è l’odore di bruciato: bruciano i campi, brucia la legna nelle cucine delle case che visito, c’è sempre odore di bruciato. Fa una certa tristezza passare di fianco a questi paesaggi mozzafiato e poi vedere ettari bruciare: si fa per poter coltivare, bruciano le foreste e la cenere nutre il terreno. E per kilometri ti rimane nel naso quest’odore di distruzione che ti affatica il respiro.
La maggior parte delle case cucina con il fuoco a legna, il che vuol dire un bel po’ di fumo. Ieri siamo arrivati nell’ennesimo villaggio sperduto e di nuovo c’era quell’odore di bruciato che ti pervade. A volte mentre faccio le interviste arriva una sbuffata di fumo: faccio il possibile per fare finta di niente, anche se vorrei tossire e coprirmi la bocca disperatamente. Martedì è stata una giornata infinita: il mio accompagnatore di turno è arrivato mezz’ora in ritardo (lui mi aspettava in ufficio, io l’aspettavo in albergo), con una gomma bucata. Se l’è fatta cambiare, ma mi sembrava evidente che la ruota di ricambio fosse vecchia e più piccola. Non un grande affare. Neanche a pensarlo, dopo 45 minuti di strada sterrata siamo arrivati nel villaggio e la gomma era a terra di nuovo. Abbiamo quindi camminato per il villaggio in cerca delle signore, e diciamo che il senso dell’orientamento non certo la forza di questo ragazzo. Nonostante l’orario e il problema della gomma, si è fermata a fare una formazione su come produrre detersivo. La formazione si svolge a casa di una delle signore, arrivano tutte le altre e un numero infinito di bambini curiosi. Ieri c’era anche un cucciolino che girava felice tra la gente. Non so come farò ad arrivare a fine periodo senza aver adottato almeno un cane. Poi il capacitatore spiega passo passo cosa usare, in che ordine, come mischiarli. È una gran caciara. Mi chiedo quante di loro continueranno a farlo. Torniamo alla macchina. C’è una ruota di scorta, anche se è già stata bucata e riparata una volta, dobbiamo solo sperare che regga. Il problema più grande è che non abbiamo il cric. Decidiamo quindi di usare dei ceppi, montandoci sopra con la ruota bucata e poi mettendo altri ceppi sotto la macchina per tenerla sollevata. Siamo l’attrazione del villaggio, circondati da bambini e anche qualche adulto curioso che sghignazza dalla distanza. Una volta che riusciamo a mettere la macchina in posizione, non riusciamo ad infilare la gomma: quella bucata era più piccola e ora la macchina non è abbastanza sollevata per potere infilare l’altra. Chiamiamo quindi gli sghignazzatori e li mettiamo a sollevare la macchina. Ogni tanto sento direi “Italia”, una delle poche parole che capisco in Qe’chi… Sono arrivata in albergo alle 20, ma tutto è bene ciò che finisce bene.

L’albergo in Raxruhà è molto carino, però il personale è un po’ – come dire – rincoglionito. Quando sono arrivata ho detto di avere la prenotazione: il ragazzo mi guarda imbambolato, dà un’occhiata a un foglio e mi dice che non ce l'ha, e si mette a fissarmi con aria bovina senza aggiungere una parola. Nel dubbio chiamo Rudy, che mi dice che aveva prenotato già il sabato. Il babbano allora controlla prima un’agenda, e poi un mini block notes dove trova la prenotazione. Bene. Mi dice che è più comodo pagare di giorno in giorno. Poi prende la chiave e fa per accompagnarmi alla camera, poi vede la mia valigia e si mette a chiamare l’addetto alle valige, che però non si sa dove fosse. In quella arrivano altri clienti e la mente brillante torna dietro il suo bancone a parlare con loro. Io rimango come una fessa con la chiave in mano senza sapere bene dove andare. Arrivano altre ragazze, presumibilmente dell’hotel, e si mettono anche loro a chiamare l’addetto, finché finalmente non cedono alla mia richiesta di portami da sola la valigia. La possibilità di accompagnarmi alla camera – o almeno dirmi dove fosse – e poi farmi portare la valigia non gli è neanche passata per la mente. Quando rientro la sera dopo, il bradipo mi guarda con faccia confusa e mi chiede quale è il mio nome e in che camera sto. E io che credevo che mi si riconoscesse qua in Guatemala. Ieri sera la più bella: rientro, gli sorrido e gli chiedo la chiave. Lui prima mi domanda in che stanza ero, poi mi chiede se avevo lasciato dentro le mie cose, come lo zaino o altre cose. Gli rispondo ovviamente di sì, dato che ci avrei dormito anche stasera. E lui perplesso mi richiede se ho lasciato dentro le mie cose e io più lentamente e scandendo bene le parole gli dico che sono in quella camera da due giorni e vado via domani, non oggi. L’espressione passa dal confuso al preoccupato ed esce dal suo bancone in cerca della cameriera perché pensa che abbiano già pulito la camera. Però non la trova, e più rilassato mi sorrido e mi dà la chiave. Quando arrivo in camera tutto è il suo posto, quindi suppongo che la cameriera sia un po’ più sveglia di lui.

Nel villaggio di ieri invece mi sono sentita il pifferaio magico. Siamo arrivati che probabilmente era ricreazione nella scuola, perché tutti i bambini erano in cortile. Passiamo là vicino e tutti (tutti) ci seguono, tipo 40-50 e forse più. Alcuni divertiti, altri con espressione attonita, altri molto poco convinti. Arrivati fuori dalla casa della signora che dovevo intervistare, mi si accalcano tutti intorno. Sono i momenti in cui da un lato sono divertita, dall’altra fortemente irritata. Per esempio quando poi siamo entrati e ci siamo seduti in casa, con tutti i bambini che bloccavano qualsiasi passaggio d’aria quando la temperatura è già sufficientemente alta… ecco, in questi momenti mi devo sforzare.
Mi ritrovo anche nella posizione di non capire niente di quello che si dicono i clienti e gli altri locali, di sentirli ridere mentre mi fissano, e io li guardo sorridendo, non sapendo bene che altro fare. Mangio e bevo tutto quello che mi danno, qualsiasi cosa sia. Il mio sistema immunitario sembra reggere tutto. Abituata a vivere in Europa, dove in una qualche lingua riesco sempre a comunicare, mi sento tagliata fuori e quasi impotente. Vorrei poterci parlare da sola, senza il traduttore, che inevitabilmente limita di molto la mia ricerca.

Muovendomi per il paese cerco di capire perché ci sia così tanta povertà. Insieme alle interviste sto conducendo un questionario che sia chiama PPI (Progress out of Poverty)  per valutare il livello di povertà dei clienti.  Praticamente tutti fino adesso risultano al di sotto della linea della povertà del Paese. In Guatemala c’è un disperato bisogno di capitale umano e infrastrutture. Solo le strade principali sono asfaltate, per raggiungere i villaggi ci vogliono ore – in macchina. Figurarsi a piedi. Non hanno acqua (utilizzano pozzi, fiumi o acqua piovana – e martedì ho dovuto usare una delle loro latrine….) e spesso neanche elettricità. Ci sono flotte di ong che cercano di fare la loro parte, facendo formazione di vario genere. Da quello che vedo, però, l’impatto è limitato. Alcuni sono più ricettivi, altri meno. Devo dire che fino adesso non ho avuto l’impressione di gente che sta male, che muore di fame. Quelli che ho visto io per adesso hanno tutti una casa in cui stare e qualcosa da mangiare (tortillas über alles), nonché figli a volontà. Non vorrei davvero tracciare il quadro dei poveri bambini africani che non hanno niente però sorridono. Parlando con quelli di Génesis, mi hanno detto che alla base c’è un grande problema culturale: molti non fanno differenza tra un investimento attivo (che produce) o passivo (consumo), così molti hanno venduto il proprio terreno per avere soldi subito, e ora lo devono affittare da altri. Ora con il mondiale alle porte c’è il rischio che la gente si venda chissà che per avere una tv. Qua tutti coltivano mais: si raccoglie ogni sei mesi, sanno come farlo, e fine della storia. Però il mais rende poco, e se il raccolto va male non si ha di che vivere per i prossimi mesi. Pochissimi investono in coltivi magari più cari e che richiedono più tempo ma che rendono molto di più (come il caffè). Con la crisi del cardamomo, molti si sono ritrovati con un pugno di mosche dopo anni di guadagni altissimi però bruciati. Da un lato si accontentano, dall’altro sanno che se va male in qualche modo si fa, anche tramite i programmi sociali. Pensano che siccome sono poveri devono essere aiutati, e questo pensavo sarebbe stato diverso con la microfinanza. Secondo il report della Banca Mondiale sulla povertà in Guatemala, uno dei motivi principali per la bassa scolarità è “mancanza di interesse”.
Con questo non voglio assolutamente dire che i guatemaltechi sono poveri perché se lo meritano, quasi il contrario: questo è spesso il risultato di una politica di sviluppo sbagliata, di un dare per dare senza una strategia sostenibile alle spalle. Qua, secondo il report, circa il 60% dell’economia è informale: questo vuol (anche) dire che il governo non raccoglie tasse, e quindi spende poco. La corruzione e la cattiva politica sono senz’altro ragioni altrettanto rilevanti. Per non parlare di 30 anni di guerra civile e abusi e mattanze... Molta campagna si gioca proprio sui “programmi sociali”: se si danno i soldi ai poveri, loro pensano che finalmente il governo li stia aiutando, mentre ci sarebbe bisogno di investimenti massivi in infrastrutture, in educazione, nello sviluppo di piccole-medie imprese che generino occupazione. Facendo 10 figli a famiglia, hai voglia a disboscare foreste per cercare terreni da coltivare. Per poi rimanere poveri comunque. La microfinanza mi sembra che li aiuti a rimanere dove sono, ma nessuno dei clienti che ho visto diventerà un piccolo imprenditore. Galleggiano.
Immagino anche che ci siano diversi accordi commerciali con il Guatemala che probabilmente potrebbero essere migliorati, ma onestamente non ne sono molto. Da un lato penso che la povertà in Europa sia molto più crudele e senza pietà: forse è più difficile ritrovarsi poveri, ma se resti senza niente, tornare a galla non è facile. Qui è una povertà di gruppo, di comunità, condivisa, non c’è il poveraccio che chiede l’elemosina e dorme per strada – per quanto ci sarà sicuramente nella capitale, io qua mi riferisco alla povertà rurale. È una povertà cronica che è difficile da eradicare, e di sicuro non si cambierà “regalando un vaccino a un bambino bisognoso”, per quanto il lavoro della cooperazione sia encomiabile, ma disperatemene a breve termine. Non toglie l'odore di bruciato.

Diluvia ed è saltata la luce. Scrivo a lume di candela e gli insetti notturni si accalcano sul mio schermo. Domani vado a vedere las Conchas, poi proseguo per Rio Dulce. Se riesco nel weekend vado a vedere Livingston.

Qua sotto i miei spostamenti fino adesso e i prossimi previsti. Dove andrò dopo, lo scoprirò solo col tempo…



domenica 25 maggio 2014

San Luis e Finca Ixobel

Sono alla Finca Ixobel, a rilassarmi dopo la prima settimana di lavoro sul campo. Il realtà il mio programma di passare la giornata a fare niente (se non guardare la partita) è stato cambiato all’ultimo momento con una gita alla grotta. Abbiamo camminato due ore in questi splendidi e solitari panorami e poi siamo entrati in questa grotta pazzesca. Torce alla mano, siamo entrati in acqua e siamo arrivati fino in fondo in mezzo a rapide e con tanto di salto di 4-5 metri nella corrente. Una di quelle cose che in Europa ti fanno fare con caschetto e salvagente: la nostra guida invece aveva solo una decina di candele, che lasciava accese lungo il cammino. Uno spettacole vederle illuminare la grotta. Ora sono stanca morta, ma ne è valsa davvero la pena.

 Questa settimana è andata bene. Sono arrivata a San Luis lunedì sera e martedì, mercoledì e giovedì sono andata a visitare i clienti di Génesis Empresarial. La prima, Doña Vilma, è la presidentessa del suo gruppo, che si chiama Las Mariposas (le farfalle). Quando sono arrivata alcune signore stavano imparando a cucire vestiti tipici e altre stavano imparando a scrivere. Mi hanno fatto vedere con orgogolio il loro orto con il caffè ricevuto da Génesis e le altre piante. Ha passato tutto il tempo a dirmi quanto sono grate a Génesis per i loro servizi, che le aiutano a sostenere le loro famiglie. “La povertà è il problema del Guatemala, se può ci mandi altri fondi, li useremo bene, ci impegnamo molto”. Un’altra signora è divertata dal fatto che non sia ancora sposata, un’altra mi dice che ha 15 figli. Al contrario di Doña Vilma, Doña Trinidad vive in una casa di legno con il tetto di foglie di palma, che però a quanto pare durano anche 30 anni. La casa è composta da due ambienti, la cucina e un’altra stanza per tutto il resto. Il pavimento è di terra. Butto un occhio dentro la stanza multiuso e con la coda dell’occhio vedo una televisione. Hanno accesso all’acqua grazie ad una sorta di pozzo/rubinetto tra le case.
Il giorno dopo passiamo due ore in macchina lungo una strada sterrata che sale e scende sulle colline, sembra di non arrivare mai. La maggior parte delle case sono di legno, ma ce n’è anche qualcuna di mattoni – o meglio cemento. Ogni tanto c’è una parabola di Claro, una delle compagnie telefoniche: non ho quasi mai perso il segnale sul telefono. I clienti di oggi sono Qe’chi, una delle famiglie dei Maya. Per trovare le case si domanda, i bambini mi fissano con aria curiosa, specie quando tiro fuori la macchina fotografica. Alcuni clienti hanno paura di dare la risposta sbagliata, anche se non esiste una risposta sbagliata, però sono sorridenti e divertite dai miei tentivi di ringraziare nella loro lingua. Non vedo molti pozzi, ma mi assicurano che ce ne sono. Rimango con l’incognita del bagno ma me la tengo per me. Il terzo giorno andiamo in un’altra comunità ancora, dove convivono indigeni e mestizos. La prima signora è chiaramente imbarazzata dalla mia presenza e dal fatto di avere difficoltà a rispondere alle mie domande, quindi taglio corto per evitarle il disagio. Un’altra mi chiede di parlarne in italiano e mi domanda come si chiamano i miei genitori. Qua tutte le case sono di cemento.






Sono riuscita a parlare con 9 persone fino adesso. Venerdì mi sono fermata tutto il giorno in ufficio e ho anche assistito ad un paio di consegne di credito, e anche la rinegoziazione di un credito non pagato. Per quest’ultimo la sala era piena di donne indigene con i bambini, che non hanno fatto che gridare e tirare cose dappertutto. Non sembrava che le signore ascoltassero davvero quello che veniva detto. Non sono riuscite a pagare perché il raccolto è andato male, quindi Génesis gli dà un altro anno di tempo.

Domani torno a Santa Elena, e poi proseguo lunedì per Raxuhà. Nel viaggio di lunedì ero in questo mini-bus con i vetri scuri (ovviamente), ma davanti all’autista c’era un’apertura a forma di cuore. Abbiamo incrociato una coppia in moto con un cane, che non sembrava felicissimo della situazione. Lunga la strada ho visto diversi “auto-hotel” e anche una casa di riposo per gli anziani.

Dopo Raxuhà e Chisec proseguo per Izabal. Poi torno a Cobàn. Logisticamente non è certo il giro più intelligente ma a quanto pare non si poteva fare altrimenti. Qua alla Finca ho conosciuto un po’ di viaggiatori, che mi hanno fatto sentire una mezza calzetta. Una è una ragazza svizzera, è in giro da quasi un anno. È partita da Vancuver, ha passato sei mesi in Alaska costruendo rifugi per animali, poi è arrivata in Messico ed è scesa in Guatemala. Avanti finchè ci sono soldi. La Finca ha anche un’area di campeggio, lei dorme su un’amaca all’aperto. Un’altra coppia di irlandasi sono in giro da 5 settimane e puntano ai 5 mesi. Anche loro Messico, poi Belize, Guatemala, Colombia e Argentina. Dormono nella stanza basica con bagno in comune. E io che pensavo che i miei 3 mesi in Guatemala fossero un’avventura.


L’altra mattina ho fatto colazione con il petto di pollo. Ormai non mi fa più paura niente.